Ripubblichiamo un estratto di Ilan Pappè, uno storico israeliano antisionista, tratto dal libro La pulizia etnica della Palestina, nel quale spiega bene, come anche la risoluzione 181 dell'Onu del 1947, quella dei due popoli e due Stati, sia stata in realtà sfruttata dal sionismo per i propri fini: la pulizia etnica della Palestina.
"Quando scelse la spartizione come obiettivo primario, l’ONU trascurò la fondamentale obiezione di principio che i palestinesi enunciavano contro il piano, obiezione ben nota ai mediatori sin da quando la Gran Bretagna aveva emesso la Dichiarazione Balfour trent’anni prima.
Walid Khalidi riassunse la posizione palestinese in questi termini: «La popolazione nativa della Palestina, così come la popolazione nativa di qualunque altro paese del mondo arabo, dell’Asia, dell’Africa, dell’America o dell’Europa, si rifiuta di spartire la terra con una comunità di coloni». Poche settimane dopo che l’UNSCOP aveva cominciato a lavorare, i palestinesi si resero conto che le carte erano truccate: il risultato del processo sarebbe stato una risoluzione ONU che prevedeva la spartizione del paese tra i palestinesi, cioè la popolazione indigena, e una colonia di nuovi venuti, molti dei quali appena arrivati.
Quando fu adottata la Risoluzione 181 nel novembre del 1947 l’incubo peggiore si concretizzò davanti ai loro occhi: nove mesi dopo che gli inglesi avevano annunciato la decisione di andarsene, i palestinesi si trovavano alla mercé di un’organizzazione internazionale che sembrava già disposta a ignorare tutte le regole della mediazione internazionale, proprie della sua Carta, e pronta a dichiarare una soluzione che agli occhi dei palestinesi era non solo illegale, ma anche immorale. Diversi esponenti palestinesi chiesero allora che quella legalità venisse verificata presso la Corte internazionale di giustizia (fondata nel 1946), ma questo non fu mai fatto. Non occorre essere un grande giurista, né un esperto in legge per capire che la Corte internazionale avrebbe condannato l’imposizione di una soluzione a un paese dove la maggioranza della popolazione era fortemente contraria.
L’ingiustizia era allora evidente quanto lo è adesso, tuttavia non ricevette quasi alcun commento da parte dei principali giornali occidentali che scrivevano sulla Palestina: gli ebrei, che possedevano meno del 6 per cento della terra palestinese e costituivano un terzo circa della popolazione, ottennero oltre metà del territorio. Entro i confini dello Stato proposto dall’ONU, essi possedevano solo l’11 per cento del territorio ed erano una minoranza in ogni distretto. Nel Negev – chiaramente una terra desertica ma con una notevole popolazione beduina rurale, che formava una grossa fetta dello Stato ebraico – essi costituivano l’1 per cento della popolazione totale. Ben presto emersero altri aspetti che indebolirono la credibilità legale e morale di quella Risoluzione. Essa incorporava nel futuro Stato ebraico le terre più fertili, oltre a quasi tutti gli spazi rurali e urbani ebraici della Palestina. Ma includeva anche 400 (su oltre 1000) villaggi palestinesi entro i confini dello Stato ebraico.
Con il senno di poi, si potrebbe sostenere in difesa dell’UNSCOP che la Risoluzione 181 si basava sul presupposto che le due nuove entità politiche avrebbero avuto una pacifica coesistenza e quindi non occorreva prendere in particolare considerazione equilibri demografici e geografici. Se così fu, come sostennero in seguito alcuni membri dell’UNSCOP, allora furono colpevoli di una lettura del tutto errata del sionismo e di una grave sottovalutazione delle sue ambizioni. Citando ancora Walid Khalidi, la Risoluzione 181 rappresentò «una decisione affrettata che concedeva metà della Palestina a un movimento ideologico che dichiarava apertamente già negli anni Trenta la propria intenzione di dearabizzare la Palestina». Di conseguenza, l’aspetto più immorale della Risoluzione 181 fu la mancata previsione di qualche meccanismo per impedire la pulizia etnica della Palestina.
Esaminiamo più attentamente la mappa finale presentata alle Nazioni Unite nel novembre 1947. La Palestina veniva divisa in realtà in tre parti.
Il 42 per cento del territorio veniva assegnato a 818.000 palestinesi per uno Stato che avrebbe incluso 10.000 ebrei, mentre lo stato ebraico si sarebbe esteso su circa il 56 per cento del territorio, nel quale 499.000 ebrei avrebbero dovuto convivere con 438.000 palestinesi. La terza parte era costituita da una piccola enclave attorno alla città di Gerusalemme, governata internazionalmente, e la cui popolazione di 200.000 abitanti era equamente divisa tra palestinesi ed ebrei. L’equilibrio demografico quasi alla pari all’interno dello Stato assegnato agli ebrei era tale che se questa mappa fosse stata in realtà messa in pratica, avrebbe costituito un incubo per la leadership sionista: il sionismo non avrebbe mai potuto raggiungere nessuno dei suoi obiettivi principali. Come ebbe a commentare Simcha Flapan, uno dei primi ebrei israeliani che contestò la versione sionista convenzionale degli eventi del 1948, se gli arabi o i palestinesi avessero accettato di aderire alla Risoluzione di spartizione, la leadership ebrea avrebbe indubbiamente riusato la mappa proposta dall’UNSCOP. In realtà, la mappa dell’ONU era la perfetta ricetta per la tragedia che ebbe inizio già il giorno successivo all’adozione della Risoluzione 181. Come i teorici della pulizia etnica ammisero in seguito, nel caso di un’ideologia basata sull’esclusività, laddove la questione etnica è altamente esplosiva, ci può essere un solo risultato: la pulizia etnica."
Tratto da La pulizia etnica della Palestina, di Ilan Pappè, Fazi Editore, 2006, Roma
Capitolo 3, Spartizione e distruzione: la risoluzione 181 e il suo impatto.
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